Un’arte celata nel profondo, Emanuele Mariani
Il teatro del mondo dal cui centro poter cogliere in un colpo d’occhio la novità mirabile e arcana che una «chiave», da qualche parte nascosta, dischiude; la totalità del sapere che si decifra per magia, in un alfabeto di simboli e analogie, dove tutto è segno o, forse, segnatura di un’altra realtà, di un altro ordine che attraversa il disordine apparente delle cose; un edificio della memoria, fatto d’immagini in cui il passato, il presente e il futuro si corrispondono nell’eternità di un divenire immobile. È il sogno, questo, di un’antica visione che rivive e si trasforma in queste tavole. Un pensiero nuovo e già antico, che fiorì un tempo nell’Europa del Cinquecento, quando la cabala e l’alchimia, la logica combinatoria e la mnemotecnica s’intrecciarono in un’orditura complessa di temi alla ricerca della «clavis universalis» – lo studio dei secreti della natura e degli altri misteri – che da Raimondo Lullo fino agli enciclopedisti francesi passa, tra gli altri, per Leibniz e il desiderio di una pansofia fondata sulla certezza del «tout se tient». Ogni singola cosa si converte nell’immagine del tutto, in un «fenestratum», secondo l’Idea del Theatro del misterioso Giulio Camillo, amico di Erasmus, del Bembo e del Tiziano. Il «teatro della memoria» e della «sapienza»: uno spiraglio aperto su quanto la mente umana può concepire; dove lo spettatore afferra all’istante lo spettacolo velato nelle profondità del cosmo.
La cabala e l’enciclopedia, la sapienza e la memoria sono le coordinate di questa «pittura alchemica» che procede con il rigore di una logica verso le affinità e le corrispondenze per far risonare l’armonia del mondo; per trasformare il mondo in una variazione infinita di possibilità; per sorprendere, infine, la combinazione dell’incastro che apre ogni porta. Il «diapason» e il «melagrano», la «corda» e le «carte», il «cerchio» e il «triangolo», le «conchiglie», la «foglia» e l’«acqua» al cui contatto sembra quasi rivivere l’«idea dell’archetipo divino» – nelle intenzioni esatte di quel Theatro, in cui reminiscenza e conoscenza si stringono nell’unità di un solo abbraccio, e il complesso si scompone nel semplice. Alla grammatica degli oggetti corrisponde una grammatica dell’immagine. La linea è il fondamento della percezione, l’atomo da cui ricostruire il tutto – il tutto inquieto che è sempre più vasto dello spazio in cui viviamo. Il «mondo sublunare», come avrebbe detto Aristotele, in cui noi uomini per un attimo appena abitiamo, si riduce a un caso particolare, a un esempio tra i tanti di una possibilità infinita. Una contingenza che potrebbe anche non essere, a dispetto della sua concretezza apparente.
Le carte geografiche e gli elenchi telefonici, gli atlanti e le enciclopedie, la sapienza e la memoria. Ma dov’è la chiave che dischiude lo scrigno? Dov’è il centro di questo teatro da cui cogliere l’evidenza oscura di una «natura che ama nascondersi»? La visione di queste tavole, ed è qui che si esprime tutta la loro forza, nasconde in sé il suo altro, il suo nemico. Nella composizione dei collage, nei colori delle tempere, l’utopia del sapere non è un gesto consolatorio che anela alla conciliazione degli opposti. Le prospettive si sovrappongono, le fughe si moltiplicano. Il centro è continuamente dislocato, marcando inesorabilmente un punto di non ritorno: niente più ci garantisce che il canone delle proporzioni si adegui al disegno della creazione, al tutto che si dispone con «ordine, peso e misura». I sistemi, come i vermi, nascono rapsodicamente, per «generazione equivoca»avrebbe detto Kant, il grande architetto capace d’intravedere, oltre i lumi della ragione, una zona d’ombra da cui tutto proviene.
Non più «utopia», allora, ma «eterotopia», l’ordine del caos. Il disordine logico sfugge al gesto classificatorio di una normalità invisibile a se stessa, una normalità che non riesce più a interrogarsi, non più capace di riconoscere la realtà per quello che è: la risultante di un equilibrio instabile, una prolificazione continua che porta in sé i germi o, piuttosto, i «vermi» di un incessante rinnovamento. L’atlante dei possibili si trasforma, d’un colpo, nell’«atlante degli impossibili», all’immagine di quell’«enciclopedia cinese» di cui Jorge Louis Borges racconta, dove gli animali, in base a una stranissima classificazione, perturbante e sconosciuta, vanno ordinandosi in «imbalsamati», «cani in libertà», «sirene», «di proprietà dell’imperatore», «disegnati con un pennello finissimo di peli di cammello». L’ordine, qualunque esso sia, implica segretamente il suo altro, implica un residuo minaccioso d’indecidibilità. Come la «tavola operatoria» di Michel Foucault, lettore di Borges, su cui s’incontrano l’«ombrello» e la «macchina da cucire», e il sistema degli oggetti si presta alle associazioni più bizzarre. «Tavole», allora, sono questi dipinti nel senso più rigoroso del termine: «tavole» come supporto e rappresentazione; visualizzazione di un piano e principio di spazializzazione; ordine e anarchia. L’improvvisa vicinanza di cose senza rapporto affranca l’occhio dalla sintassi del discorso, spingendo il pensiero in una sfera d’afasia dove regna l’«infans» – «il potere analfabetico dell’immaginazione» – libero di giocare a dadi con il mondo.
L’atlante degli impossibili è, dunque, un atlante dell’immaginazione e al contempo un atlante della memoria. Mnemosyne,potremmo dire con le parole di Aby Warburg che intitolava così il grandioso progetto di un «Bilderatlas», fatto d’immagini archetipe e senza nome che s’incarnano in contesti differenti attraverso i secoli della storia. L’«eterno ritorno» di un’esperienza senza fine. Dalla classicità ai rotocalchi, tavole su tavole – questo è Mnemosyne – in cui Warburg giustappone le figure, lasciando indeterminata la sintassi per permettere quella visione d’insieme, il colpo d’occhio in grado di raccogliere nello spazio angusto della retina il passato che persiste e il presente che risorge. La visione sinottica segna l’estremo opposto delle «magnifiche sorti e progressive»; opera per un’emancipazione del tempo dalla sequenza binaria del «prima» e del «dopo». Non più una linearità cronologica, bensì una stratificazione geologica. Questo è il tempo della storia in cui coabitano livelli di profondità variabile, e lo stesso vale per «la storia dell’arte» che Warburg ridefinisce sapientemente, al seguito di Nietzsche e Freud, come «una storia di fantasmi». Una storia, cioè, di «immagini» e «visioni» che sopravvivono, trasformandosi in memoria, in un continuo riemergere del rimosso. Gli elenchi telefonici e le mappe celesti, i disegni antichi e le stampe rinascimentali sono la testimonianza esatta del pensiero che trasforma e fa rivivere, e dove la «chiocciola», simbolo dell’era digitale, a dispetto di un’apparente novità, conferma un gesto nuovo e già antico – la cabala e l’alchimia.
Ed è così che si compie la transizione dalla tempera all’oro, dai colori al chiaro scuro di queste forme, tra queste pieghe dove la mano scava verso l’interno, scoprendo la lucentezza del metallo. Tra l’originalità creativa e la ripetitività del canone, l’accesso alla «contemporaneità» passa per un’operazione archeologica. Entriamo nel futuro à réculons. Non più il segno, ma il graffio. L’immagine emerge, anzi riemerge da un fondo oscuro, dalle lontananze di un ricordo che fissa il «centro dislocato» della scena, l’origine, che è genesi e destino, ciò da cui proveniamo e verso cui procediamo. Da una tavola all’altra, tra gli estremi del percorso, va allora formulandosi una lezione colta, quasi una teoria che unisce alla percezione una critica della storia. Contro ogni positivismo, e il realismo ingenuo dei nostri tempi ne è una frustra variante, lo sguardo non si piega alla dittatura dei fatti; non si restringe alle cose, ma cerca le essenze dove l’immaginazione è percezione e l’estetica è già conoscenza. La contemplazione della pittura, di questa pittura, invita a un’azione riflessiva che media tra i termini di un rapporto all’apparenza immediato. La «sintesi» tra l’idea e il fenomeno, come avrebbe detto Kant che non a caso si appellava, scavando nell’interiorintimo meo, all’immaginazione produttiva, l’unica tra le facoltà dell’anima in grado di cogliere l’arcano della visione – il mistero di un’arte celata nel profondo.
Emanuele Mariani
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.