Munari e il gioco dell’arte, Enrico Versari
Munari e il gioco dell’arte
Di Bruno Munari si può dire tranquillamente che sia stata una tra le menti più brillanti del secolo appena concluso e che la sua opera abbia influito enormemente sul panorama artistico contemporaneo, contribuendo alla rielaborazione delle sue componenti espressive e ridefinendo, completamente, i nostri parametri estetici. Nato a Milano nel 1907 ha attraversato un secolo intero dedicando l’intera esistenza alla ricerca, intesa, nel senso più completo del termine. Pittore, scultore, magari designer, oppure pedagogo; difficile dirlo. La sua consapevole contestazione ad ogni forma rigorosa e a qualsiasi schema d’omologazione, lo ha tenuto al riparo da ogni critica categorizzante. Munari ha attraversato, con incredibile energia, ogni possibile forma d’intervento incarnando perfettamente l’artista del ventesimo secolo che, totalmente integrato ed immerso nel sistema sociale, agisce in funzione di esso, senza esaltare minimamente il suo contributo. Secondo Munari era necessario capire che finché l’arte rimane estranea ai problemi della vita, interessa solo a poche persone e con spiazzante ironia di sapore dadaista, ha da sempre cercato di smitizzare la sacralità dell’artista. Nessun atto creativo o folgorante ispirazione, il suo fare è un meccanico procedimento tecnico, naturale, sereno ed oggettivo che sembra seguire “Codici ovvi”. Poco più che diciottenne, a Milano, Bruno Munari, in Corso Vittorio Emanuele, strinse la mano a Filippo Tommaso Marinetti, entrando nel gruppo di artisti del cosiddetto secondo futurismo, legandosi all’eclettico Prampolini ma, grazie al lato ironico della dimensione dadaista, canzonatoria e continuamente “contro”, l’artista milanese mentre i futuristi esaltavano lo splendore della macchina, in perfetta provocazione dada, presentò le sue macchine inutili che fecero l’ira di Marinetti. Del resto era stato proprio il futurismo ad insegnargli che era necessario rompere continuamente con il passato. L’idea delle macchine inutili, dei primi anni Trenta, era quella di creare un vero e proprio dinamismo ambientale senza però fare né pittura e né, tantomeno scultura, ma creare oggetti capaci di liberare le forme astratte dalla staticità del quadro e dalla sua atmosfera verista. Ma mentre i mobiles di Calder venivano celebrati come grandi opere d’arte, le macchine inutili di Munari, che rispetto alle prime godevano di maggior acume intellettuale, vennero relegate alla stregua di piccoli giochi da appendere, magari, nella cameretta di qualche bambino. Quelle che arrivarono più tardi furono le sculture da viaggio che rappresentano bene la sua volontà di ribaltare qualsiasi convenzione e la necessità di mantenere una componente ironica che smonti qualsiasi tipo di luogo comune. Piccole sculture di cartone piegato, che possono essere mese in valigia e usate durante piccole soste di viaggio, installandole a piacere, magari nel comodino dell’ albergo. Affrontando il lavoro di Munari si deve tenere in considerazione un aspetto importante del suo agire, ovvero il porre l’attenzione non alla cosa creata, bensì al problema di crearla, alla riflessione sui processi della sua formazione. L’attenzione al metodo, che lo porterà in seguito ad affrontare il problema della didattica, è esemplificativa del suo atteggiamento creativo. I suoi tanti scritti non sono un approfondimento o una spiegazione della sua opera, ma sono delle vere e proprie lezioni pratiche, dei concreti procedimenti didattici. L’oggetto finale non è altro che l’inevitabile risultato di un processo consapevole e lineare ed è questo che interessa a Munari e che, a suo avviso, stimola la disposizione creativa. Dopo la guerra Munari si dedicò all’attività di grafico per Bompiani e Mondadori e fu nei primi anni Cinquanta che si avvicinò al design ribadendo la necessità di superare qualsiasi pregiudizio. In effetti parlare in questi anni, che vedevano l’assoluto imperare dell’arte informale, di progettazione era un atto che un artista non avrebbe mai fatto. Questo passaggio avvenne, attraverso l’esperienza nell’ambito dell’arte cinetica e programmata, esperienza che condivise anche con Enzo Mari. Con l’arte programmata si cercò un rapporto più stretto tra l’artista e la società, attraverso il connubio arte/industria. In Arte come mestiere si legge: “ Progettando senza alcun preconcetto stilistico e formale, tenendo alla naturalezza nella formazione delle cose, si ottiene un prodotto essenziale: che vuol dire usare le materie più adatte negli spessori esatti, ridurre al minimo i tempi di lavorazione, fondere assieme più funzioni in un solo elemento, risolvere gli attacchi con semplicità, usare meno materie che sia possibile […]”. Quest’affermazione segna il passaggio dalle sperimentazioni precedenti al design vero e proprio per cui l’unico precetto da seguire sembra essere quello di togliere invece che aggiungere. Esemplificativa di questo atteggiamento è tutta la sua produzione, in cui la forma si presenta come la parte finale di un procedimento del tutto naturale per cui la bellezza sembra sorgere, in maniera spontanea dalla esattezza della progettazione, semplice ed essenziale. I suoi progetti sembrano arrivare al limite della semplicità costruttiva oltre il quale niente è più possibile. Il consiglio di Munari per il designer è quello di osservare la natura e la spontaneità delle sue forme. Munari vede operare l’artista con una facoltà dello spirito, la fantasia, capace di fare astrazione dalla realtà attraverso immagini mentali magari irrealizzabili nell’atto pratico; il designer invece, unendo la fantasia alla ragione, realizza sempre in maniera pratica i suoi progetti sfruttando la creatività, una capacità produttiva. L’arte o il design sono un materiale con cui giocare liberamente, mantenere lo spirito dell’infanzia giocando in continuazione significa conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire e, soprattutto, la voglia di comunicare. Hans Georg Gadamer, nel suo “ Verità e metodo”, parla del gioco come dell’essere stesso dell’opera d’arte in cui è riposta una sacrale serietà, non solo è senza scopi e senza intenzioni ma che è anche libero da ogni sforzo. Il gioco è cosa seria, dunque ha un’essenza propria, il soggetto di esso non sono i giocatori bensì esso stesso che si produce attraverso di loro. Il gioco non tende ad un fine ma è ricerca libera e continua pur essendo definito da regole, cui è necessario attenersi per fare la serietà di esso. L’unico sacro artista per Munari può essere solamente il bambino.
“Il Falco Letterario”, Inverno 2009
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