Eleusine, Emilio Quinto
Osservando le opere di Versari uno degli aspetti che più colpisce è la potenza delle figure femminili. Giovani ragazze dalla pelle diafana in atteggiamenti riflessivi, donne mature che indicano rotte sapienziali, streghe, ingenue fanciulle: in Versari, indipendentemente dall’atto in cui sono ritratte o dall’età, le figure femminili appaiono sempre come portatrici, consapevoli o meno, di un sapere arcaico, magico, solo in piccola parte accessibile all’universo maschile, e per questo la loro rappresentazione risulta estremamente potente e affascinante. Ma da dove trae origine la potenza di queste immagini?
La scelta di Versari di ritrarre le figure femminili in gesti carichi di riferimenti simbolici e in contesti intrisi di richiami filosofici (in particolare afferenti al pensiero alchemico) spiega soltanto in parte tale forza espressiva, che va anche al di là del semplice impatto visivo e tocca corde più profonde. Una possibile spiegazione si può trarre, forse, attingendo a uno dei più antichi riti misterici a noi noti, quello di Eleusi. Questo rituale arcaico, del quale abbiamo soltanto testimonianze sporadiche e in parte contrastanti, era associato al culto di Demetra, divinità protettrice della fertilità e dell’agricoltura. Uno dei più antichi testi in nostro possesso sui riti di Eleusi è il Protrettico di Clemente Alessandrino, scritto alla fine del II secolo d.C., nel quale il teologo cristiano racconta la sua personale versione dell’origine dei misteri eleusini ai quali egli stesso era stato iniziato prima di convertirsi al cristianesimo. Secondo il mito, dopo il rapimento da parte di Ade della figlia Persefone, Demetra, travestita da anziana, si mise alla sua ricerca vagando per tutto il mondo. Durante le sue peregrinazioni la dea, sconsolata e ormai sul punto di abbandonare definitivamente le ricerche, giunse a Eleusi, in Attica, dove incontrò una donna molto particolare, di nome Baubo, la cui conoscenza le diede la forza per riprendere il proprio viaggio.
Nel corso dei riti eleusini, divisi in due parti legate ai cicli stagionali – i “piccoli misteri” e i “grandi misteri” –, veniva simbolicamente ripercoso il viaggio di Demetra. Proprio l’incontro tra la dea e Baubo, divinità primordiale, legata alla sessualità femminile, costituiva la parte centrale, e al tempo stesso più oscura, dei misteri. In base alla versione dell’episodio raccontata da Clemente Alessandrino, Baubo, in compagnia di un bambino di nome Iacco, accolse Demetra nella propria casa e, avendola vista in lutto, per rincuorarla le offrì una bevanda magica, il ciceone. La dea, troppo addolorata per bere, rifiutò tuttavia la bevanda. “Allora Baubo – scrive Clemente Alessandrino –, fortemente adirata, come se il rifiuto significasse disprezzo, danzando, si alzò il peplo e si mostrò nuda alla dea. Mentre stava facendo questo, il fanciullo Iacco, ridendo, si precipitò da Baubo e le mise la mano sotto il grembo. Allora Demetra, quando vide la scena, sorrise nell’animo suo e accettò il lucido vaso nel quale era la bevanda”.
Le interpretazioni del passo di Clemente Alessandrino sono state diverse e in parte contrastanti tra loro. Come si è detto in precedenza Baubo era un’antichissima divinità strettamente connessa alla sfera sessuale, che i greci avevano mutuato da civiltà precedenti. Da un punto di vista iconografico Baubo è spesso rappresentata come una donna prosperosa (con seno e vita abbondanti e una grossa vagina) nell’atto di masturbarsi. Per questa ragione molti studiosi ritengono che la danza “scabrosa” che Baubo compirebbe per rallegrare Demetra non sia un rituale legato alla fertilità quanto piuttosto all’autoerotismo femminile. Secondo questa interpretazione il fanciullo Iacco, figura alla quale spettava il compito di guidare con una torcia le processioni eleusine, rappresenterebbe il fallo artificiale (che i greci chiamavano “βαυβών”), uno degli oggetti misteriosi che erano utilizzati durante il rito misterico ai quali allude la formula sacra che veniva pronunciata dagli iniziati: “Digiunai, bevvi il ciceone, presi dalla cesta, dopo aver fatto quello che era da fare, riposi nel canestro e dal canestro nella cesta”.
In questo senso, il mito di Demetra e Baubo e i riti ad essi associati, svincolando l’atto sessuale dalla procreazione, costituirebbero la celebrazione dell’autonomia del mondo femminile da quello maschile. Tale autonomia, che per l’uomo risulta particolarmente “scandalosa” in quanto per ragioni biologiche incapace di procreare, diventa il tratto distintivo delle raffigurazioni femminili di Versari, che assumono così una potenza sotterranea e per certi aspetti ancestrale.
Un’autonomia che emerge chiaramente mettendo a confronto due opere di Versari tra loro molto differenti. La prima, che rappresenta inequivocabilmente l’aspetto materno della donna, è “Aqua mater”, uno dei quadri più noti di Versari, nel quale una giovane donna è raffigurata nel gesto di offrire allo spettatore una semplice ciotola di terracotta contenente dell’acqua, elemento primordiale associato alla vita. Di segno opposto è invece il quadro intitolato “S’accabadora”, che rappresenta una donna intenta a preparare con un pestello un infuso o pozione. In questa seconda opera, meno tranquillizzante per lo spettatore, colei che ci ha generato diviene portatrice di morte. Con il temine “S’accabadora” in Sardegna erano infatti chiamate le donne – in genere anziane – incaricate dalle famiglie di somministrare ai malati terminali la “dolce morte”, l’eutanasia.
Se a un primo sguardo le due raffigurazioni femminili sembrano molto differenti tra loro, in entrambe le opere le donne appaiono completamente autosufficienti dall’universo maschile. Un’autosufficienza che le trasforma in soggetti mitici, svincolati dal tempo e dalla storia. Dispensatrici di vita, come in “Aqua mater”, o di morte, come in “S’accabadora”, le “donne di Versari” diventano così il mezzo privilegiato attraverso il quale possiamo superare il sottile diaframma che separa il mondo fisico da quello metafisico, la vita dalla morte.
Emilio Quinto
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