CONCENTRAZIONE, RIPETIZIONE, INSISTENZA. MARCO BERNINI
CONCENTRAZIONE, RIPETIZIONE, INSISTENZA.
«LA NOTTE DEGLI ARCAISMI» IN ENRICO VERSARI, DI MARCO BERNINI
Ammirevole è la vita delle cose.
Nulla trapela dai loro gesti
impassibili, presagiti e scelti
come unica e costante idea.
Sono sacerdoti assorti
che occupano questa sala
per un misterioso capitolo.
Da Ora serrata retinae
di Valerio Magrelli
Concentrazione, ripetizione, insistenza. Una concentrazione estesa, distesa nei segni, lontana da un ermetismo concettuale che continua a sovrapopolare le G.A.M di tutto il mondo, nascondendosi dietro la trita etichetta della performance, troppo spesso bisognosa di un extratesto interpretativo, incapace di presentarsi nella pura presenza, nel colore, nella materia.
Ripetizione come labirinto, come tecnica del silenzio (un labirinto liturgico, fenomenologicamente ancorato all’oggetto, che trova figura fisica nel filo di cotone), un percorso che avvicina il tempo tramite la ritualità del gesto, lo rende percepibile e fa dell’opera un continuo scarto, il residuo negativo che il tempo espelle, come il mare l’osso di seppia.
Non action painting (anche se il tempo di realizzazione è contentuto primario), piuttosto una continuous painting, o pittura continuata, che si traduce in disegno (nel senso più forte della tradizione italiana) come porta dell’insistenza, in una linearità del segno che nell’insistere gradualmente concede profondità, permette all’oggetto di depositarsi nel tempo liquido, come un precipitato chimico.
A quale scopo? «Eliminare ogni fenomeno trascendentale a favore della completa datità dell’evento» – così lo esplicita Versari stesso. Inevitabile pensare ad Husserl, Merleau-Ponty, all’epoché – sospensione del respiro, apnea della mente – tentata contro il pregiudizio percettivo. Perché la percezione è pregiudizio, catena logica di una comprensione in cui – continua Versari – «entrano in ballo la memoria e le sue connessioni»:
«Il ricordo scaccia il presente; l’utile scaccia il reale; il significato dei corpi scaccia la loro forma […] Noi vediamo soltanto futuro o passato, ma non le macchie dell’istante puro»
Per un presente da riconquistare (unica possibilità di percepire il tempo, simultaneamente presente e circolare) allora occorrono tecniche di dislocazione, bisogna costringersi al gesto minimo – al segno breve e continuato, a farsi filo – che ci distragga dalla tentazione di una visione d’insieme precostituita, così che sia l’oggetto stesso a costruirsi: concentrarsi, ripetere, insistere. Deportare l’oggetto fuori dalla sua abitazione – abitudine che noi gli abbiamo edificato attorno – per liberarlo nella sua estraneità. Rispetto ad esso Versari cerca di farsi «bordo dell’essere», negativo rispetto all’alterità che l’oggetto riconquista. Farsi mancanza, «fessura che si scava nell’esatta misura in cui si colma» .
E Versari fisicamente scava, togliendo olio dalla tela con una punta metallica, e a osservarlo compaiono ieratiche sentinelle (fig.1, 2), quasi messe a guardia del silenzio, a custodire l’alterità: «sacerdoti assorti» di un altromondo, di un mondo irrimediabilmente altro. In questo rapporto di sottrazione – del colore, del soggetto – le cose si fanno spazio, svincolate dalle nostre leggi percettive possono lievitare (fig. 3, e non è surrealismo, bensì esercizio di sospensione), alterarsi (fig, 4, 5, e qui l’ombra, che meriterebbe un discorso a parte, è l’anima semica del movimento), addensarsi fino a raggiungere un enigmatico peso cosmologico (fig. 6, e viene in mente il “nero monolite” di Kubrick in 2001 Odissea nello spazio.)
Che sia una punta sull’olio, una puntasecca su metallo, una penna a sfera su carta (e qui ciò che si sottrae è il bianco, procedimento inverso alla sottrazione del colore sulla tela) quello che importa in Versari è la gradazione dell’accesso (il tortuoso incedere del filo), il trascorso più che il compiuto, perché è nell’avvicinarsi all’oggetto che si avverte la spiazzante autonomia delle cose, il loro battitto che nel prodotto finito torna a farsi silente, in un contraccolpo conoscitivo che ci respinge ad ammirare lo scarto, affascinati dal residuo. La sensazione è che tempo e materia dialoghino in un presente che continua a escluderci.
Concentrazione, ripetizione, insistenza – oggi che il presente è il futuro, e ci vuole distratti, nuovi, scostanti – potrebbero essere strumenti di recupero, percorsi di meditazione materica, di educazione al dubbio, al fascino e al rispetto per il molteplice che crediamo di avere zittito nel controllo. Sottrarre luce – concetti, pregiudizi – è un modo di rilevare e rivelare presenze, un salutare «ritorno alla notte degli arcaismi». Questo, credo, ci dice Enrico Versari.
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